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Da "MISSIONI CONSOLATA" (mensile dei Missionari della Consolata) di Luglio/Agosto 2003

(sito internet: www.missioniconsolataonlus.it)

SEMI DI SPERANZA

Meki, nuova guida del vicariato

 

testo e foto di Benedetto Bellesi

 

Grande come mezza Italia, il vicariato di Meki è stato fondato e organizzato dal sudore dei missionari della Consolata. Per oltre 30 anni, essi hanno «fatto un lavoro meraviglioso» afferma il nuovo vescovo, mons. Abraham Desta; ma resta molto da fare, sia nel campo dell’evangelizzazione che in quello della promozione umana.

 

■ Mons. Abraham Desta insieme alla madre.

Il 10 maggio scorso è stata una data storica per il vicariato apostolico di Meki. Anche il cielo ha voluto partecipare alla festa: un temporale notturno ha spazzato via la cappa caliginosa che ricopriva questo infuocato angolo della Rift Valley, promettendo una boccata d’aria più respirabile. La mattina, un cielo terso come uno specchio ha fatto da sfondo al grande evento: l’ordinazione episcopale di abba Abraham Desta, secondo vescovo del vicariato apostolico di Meki, successore di mons. Johannes Waldeghiorghis, deceduto nel settembre 2002. Oltre ai 4 mila fedeli, missionari, preti locali, religiose e religiosi impegnati nel vicariato, hanno partecipato alla celebrazione tutti i vescovi delle nove diocesi dell’Etiopia, il nunzio apostolico e vari vescovi e leaders ortodossi. La stragrande maggioranza dei convenuti è rimasta fuori della cattedrale, seguendo la funzione da due schermi televisivi. Beati loro! I privilegiati ammessi all’interno della chiesa hanno sudato le proverbiali sette camicie per quasi quattro ore, tanto è durata la funzione.

 

IL VESCOVO VENUTO DAL NORD

Ha presieduto la cerimonia mons. Berhaneyesus Souraphile, arcivescovo di Addis Abeba, assistito dai vescovi di Adigrat e di Harar. La celebrazione eucaristica è stata in lingua amarica e rito latino; la consacrazione episcopale in lingua ge’ez e rito orientale. Non sono dettagli di pura curiosità: le differenze dei riti rispecchiano storia, organizzazione ecclesiastica e strategia missionaria adottata in Etiopia. Le regioni settentrionali del paese (Tigrai e Shoa) furono evangelizzate fin dal IV secolo; ma due secoli dopo la chiesa etiopica si trovò separata da Roma per incomprensioni di teologia cristologica, dando origine alla chiesa copta ortodossa. Quando nel secolo XIX Agostino De Jacobis (1839-60) cercò di attirare gli ortodossi nella comunione con Roma, conservò lingua, riti e legislazione orientali.

Nelle regioni del sud, invece, abitate da popolazioni prevalentemente non cristiane, il card. Guglielmo Massaia (1846-77) preferì adottare il rito latino, ancora in vigore anche nel vicariato di Meki.

L’uso del ge’ez e la presenza del vescovo di Adigrat, inoltre, sottolinea l’origine del nuovo vescovo, che, come il suo predecessore, proviene dalla diocesi tigrina.

Nato 51 anni fa, Abraham Desta studiò nel seminario di Adigrat e, dopo l’ordinazione, continuò gli studi in Irlanda, presso un istituto dei Gesuiti, conseguendo la licenza in teologia dogmatica e diplomi in sviluppo comunitario e teologia pastorale.

 Tornato in patria, ricoprì vari incarichi: per nove anni fu rettore del seminario minore di Adigrat; poi segretario del vescovo e responsabile della pastorale e formazione dei giovani; dopo sette anni fu nominato cancelliere e direttore del Segretariato cattolico della diocesi, finché, nel gennaio scorso, fu raggiunto dalla nomina di vescovo di Meki. «È stata una sorpresa - confessa abba Abraham -. All’inizio, com’è umanamente comprensibile, mi sono posto varie domande: sono la persona giusta? Come potrò assolvere questo compito? Ce la farò? Poi, nella preghiera, ho chiesto a Dio Padre di darmi la forza per accettare e fare la sua volontà».

 

■ Mons. Abraham Desta in un momento della consacrazione episcopale.

SPERANZA EVANGELICA

Ed è proprio durante un periodo di preghiera e ritiro spirituale, in preparazione della sua ordinazione, che incontro abba Abraham e gli porgo qualche domanda, a cui risponde volentieri.

Cosa pensa del vicariato che è chiamato a guidare?

«Prima dell’ordinazione ho voluto rendermi conto della vita della chiesa in questa regione del paese, visitando tutte le parrocchie, incontrando la gente e i missionari e missionarie. Sono stato felicemente impressionato dalla mole di lavoro fatto dal mio predecessore, dai missionari, preti fidei donum, suore di varie comunità religiose. Mi ha commosso lo zelo di tante persone impegnate nel portare alla gente la speranza del vangelo, specialmente dei missionari della Consolata, che sono all’origine di questa diocesi». Il vescovo si lancia in un elogio sperticato dei missionari della Consolata, sciorinando nomi di missioni, padri e fratelli. Ed è sincero. Fin dai primi anni ’70, quando arrivarono i padri Giovanni De Marchi, Lorenzo Ori, Giovanni Bonzanino, è stato fatto un lavoro gigantesco (cfr. M.C. gennaio e maggio 2003): in pochi anni, il territorio di Meki, distaccato dalla chiesa madre di Harar (1980), diventò prefettura apostolica e poi vicariato (1992). È una regione immensa, dallo Shoa meridionale alla Somalia, localizzata in gran parte nello stato dell’Oromia, con estensioni in quello delle Nazioni etniche meridionali. Misura oltre 156 mila chilometri quadrati (quasi mezza Italia) e conta 5,3 milioni di abitanti, in prevalenza oromo, con minoranze etniche indigene (kambatta, adya, wolaita, guraghe) o immigrate (amhara e tigrini).

Gli oromo sono quasi tutti musulmani; gli altri gruppi etnici sono cristiani (ortodossi, cattolici e protestanti) e di religione tradizionale. Oggi il vicariato di Meki conta oltre 21 mila cattolici e oltre 2 mila catecumeni: erano circa 4 mila i battezzati nel 1980; 14 mila nel 1992. L’adesione alla chiesa cattolica è forte soprattutto tra le etnie minoritarie; ma anche tra gli oromo si registra il passaggio di famiglie intere dall’islam al cattolicesimo. Più delle cifre, sono le innumerevoli opere sociali (scuole, asili, ospedale, lebbrosari, dispensari, centri di formazione religiosa e promozione umana, pozzi e acquedotti, interventi umanitari di emergenza...) a testimoniare la mole di lavoro che la chiesa di Meki continua a svolgere a favore di centinaia di migliaia di persone di ogni etnia e religione, seminando tra la gente «speranza evangelica » per un futuro migliore.

 

PALLA O... PATATA?

«Naturalmente c’è ancora molto da fare - continua il vescovo -. Ho visto che vaste zone sono ancora da evangelizzare. I missionari della Consolata sono essenziali; ma ho paura che mi lascino solo». La frase è sibillina, ma so a che cosa allude. I missionari della Consolata hanno sempre voluto dare massima visibilità al clero locale: quando fu creata la prefettura di Meki, essi insistettero che fosse un prete etiopico a guidarla; appena una parrocchia è funzionante, premono perché sia affidata al clero diocesano, per aprire una nuova missione in zone ancora incolte.

C’è ancora un posto di responsabilità, da 30 anni in mano a un missionario della Consolata: l’amministrazione del vicariato. Tale carica richiede continui contatti e trattative con amministrazioni e governo, per lo svolgimento dei programmi sociali e di sviluppo del vicariato. Inoltre, dal momento che Meki conta già una quindicina di preti locali, i missionari hanno ventilato l’idea di passare loro la palla, ritenendo che un prete oromo possa intendersi con le autorità meglio di un visopallido. Più che di palla, forse si tratta di... patata bollente: basta guardare padre Giovanni Monti, attuale amministratore e direttore dei vari uffici della curia: è rimasto pelle e ossa e, in pochi mesi, ha aggiunto tre buchi alla cinghia dei calzoni, anche se non è mai stato in sovrappeso in vita sua. «I missionari della Consolata hanno svolto un compito meraviglioso; il futuro della diocesi dipende ancora dal loro supporto - continua il nuovo vescovo incensando -. Sono felice di lavorare e programmare insieme a loro. Spero e prego, quindi, che essi vedano le esigenze e problemi della diocesi e aumentino la loro presenza, per rispondere alle attese sociali e religiose della gente, che in tanti villaggi aspettano ancora la consolazione del vangelo. Da soli non ce la possiamo fare».

 

VISIONE E REALTÀ

A proposito di programmi, cosa prevede per il futuro?

«Per ora non ho in mente nessun piano, sarebbe prematuro. Prima di delineare una strategia, ho bisogno di sedermi con tutte le persone coinvolte nelle attività del vicariato e ascoltare cosa hanno da dire. Ma ho una mia visione, un traguardo da raggiungere. Nel vicariato ci sono già molti cristiani: dobbiamo fare in modo che si impegnino realmente, fino a diventare autosufficienti e capaci di aiutare gli altri. È pure il cammino indicato dalla lettera pastorale della Conferenza episcopale etiopica: La chiesa che vogliamo essere. È un cammino da fare tutti insieme: vescovo, clero, religiosi, suore, catechisti e fedeli, uniti in mente e cuore, nella preghiera e comunione, nella condivisione, diffusione e testimonianza del vangelo. Vogliamo essere una chiesa non ripiegata su se stessa, ma che guarda sempre avanti, che guarda fuori, come le comunità primitive che, quando ricevettero la missione di Cristo, non si chiusero in se stesse, ma andarono a portare altrove la buona notizia. Vogliamo costruire una chiesa non dipendente, ma capace di inviare missionari e aiuti alle chiese in necessità di altri luoghi.

Intanto, però...

«Siamo ancora una chiesa bisognosa di personale e aiuti materiali. Viviamo tra gente molto povera. Anche quest’anno, l’intero paese è in stato di emergenza a causa della siccità e della fame; il vicariato di Meki è parte del problema; soprattutto la gente che vive nell’area della Rift Valley si trova in una situazione disperata. Dobbiamo pensare ai bisogni materiali della gente. Non possiamo aspettare, predicando solo cose spirituali; devono anche riempire lo stomaco. La comunità internazionale e la chiesa universale ci stanno aiutando molto. Ma non dobbiamo perdere di vista il traguardo: edificare una chiesa sempre più coinvolta nello sviluppo del territorio, protagonista di cambiamento, fino a rovesciare la situazione di povertà della nostra gente».
Come sono i rapporti con i musulmani? La loro presenza è in aumento?

«A livello nazionale e internazionale, il Corno d’Africa è nel mirino della comunità mondiale e, nel suo insieme, non so cosa accadrà in futuro. Per ora direi che esiste una certa “tensione” a livello psicologico; ma sul piano pratico non vedo problemi concreti e pericolosi. Anche a livello locale non ho riscontrato tensioni particolari. Ma ho notato un fatto preoccupante: lungo la strada da Shashemane al Bale ho contato 10 moschee nuove: una ogni dieci chilometri. Noi cattolici abbiamo una chiesa ogni 100 chilometri. Ho una certa apprensione: dobbiamo intervenire in fretta. Non si tratta di provocare contrasti, ma di presenze pacifiche, per fare conoscere l’etica della nostra religione e la testimonianza della nostra carità evangelica. Aspettare potrebbe essere troppo tardi. Per questo ho intenzione di aprire una nuova parrocchia nel Bale.

Anche le sètte evangeliche sono in aumento...

«E sono molte. Vengono con tanto denaro e la gente povera è attratta dai soldi. Anche a questo aspetto dobbiamo fare fronte, non ricorrendo ai loro metodi, denaro in cambio di conversione, una prassi che aborriamo, ma aiutando la gente a riscoprire la propria dignità umana e formare cristiani dalla fede solida. Ho visto che i missionari hanno fatto un grande lavoro in tale direzione, e questo mi dà coraggio: hanno preparato un buon numero di catechisti, leaders e laici impegnati. Occorre continuare. L’unità e solidarietà della chiesa cattolica, sia essa in Italia, Etiopia o America, mi dà fiducia nell’assumere la responsabilità di guidare una comunità povera di personale e mezzi come il vicariato di Meki. Confido nella chiesa universale, per rispondere alle infinite necessità della nostra gente. Per questo faccio appello anche alla generosità di quanti sostengono i missionari della Consolata. E li ringrazio di cuore. Sono certo che, lavorando insieme, mano nella mano, riusciremo a portare consolazione e speranza evangelica in questa remota parte dell’Etiopia».

 

■ Stemma episcopale scelto da Mons. Desta.

STEMMA EPISCOPALE

Dall’alto: la corona (simbolo di santità e buone opere), la tipica croce etiopica e il pastorale (simbolo di servizio, autorità e magistero). I tre cerchi indicano la Trinità. Il centro del campo è occupato dalla Madonna con il bambino e la scritta in caratteri etiopici: «Il verbo si è fatto carne». Maria è rappresentata come madre di Dio e in atteggiamento di preghiera, figura della chiesa orante. Il roveto ardente, oltre a ricordare la figura di Mosè, simboleggia la rivelazione definitiva di Dio mediante l’incarnazione del Figlio. La quercia a sinistra, tipica del paesaggio dell’Oromia e presente nella bandiera dello stato omonimo, simboleggia fertilità e pace: alla sua ombra si siedono gli anziani per discutere i problemi della gente. In basso il motto episcopale: «Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 118,105).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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aggiornamento pagina: 25 Ottobre 2003