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Dal quotidiano "AVVENIRE" del 3 ottobre 2004

(sito internet: www.avvenire.it)

 

 

ETIOPIA, RISCHIO CARESTIA

ESODO FORZATO DI MASSA

Il governo vuole spostare due milioni di persone

 

da Addis Abeba, Emiliano Bos

 

«L'anno scorso il lago arrivava fino a qui». Mamhoud distende il braccio e mostra l'altra riva. La sponda limacciosa dell'Abiata si è trasformata in una distesa di terra arida e rugosa. La puoi calcare persino con il gari, una sorta di carretto biposto trainato da una cavallina affaticata. Da queste parti è il principale mezzo di locomozione.

A mezzogiorno il sole picchia quasi in verticale sulla Rift Valley, duecento chilometri a sud di Addis Abeba. L'orizzonte rovente è solcato da una striscia rosa: migliaia di fenicotteri indicano con precisione il punto in cui c'è ancora acqua. Il Parco nazionale dei laghi gemelli è la porta di ingresso per Awasa, capoluogo del Sidamo e capitale della siccità. Sullo stradone che punta diritto verso il Kenya lo spettacolo non cambia: gigantesche acacie puntellano una valle secca dove il granoturco è smagrito e, in gran parte, infruttuoso.

Lo spettro della fame torna anche quest'anno in Etiopia, ed è poco sollievo che i numeri della tragedia si siano dimezzati: nel 2003 erano a rischio in 14 milioni, stavolta "solo" 7,6 milioni, che dipendono dall'assistenza di organismi internazionali. La chiamano «food insecurity», insicurezza alimentare. Ma tradotto a queste latitudini significa lotta per la sopravvivenza. Che spesso si trasforma in fuga dalle zone rurali verso le città, soprattutto nel sud e nella regione degli Oromo, principale gruppo con 30 dei 70 milioni di abitanti che compongono il mosaico etnico-culturale etiope.

Sette lavoratori su dieci sono agricoltori in questo Paese, il secondo più popoloso dell'Africa dopo la Nigeria. E il governo del premier ed ex-guerrigliero Melles Zenawi insiste: coltivare i terreni di proprietà statale è la via privilegiata per lo sviluppo. A nulla sono servite le rampogne del premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, che in un convegno nella capitale nei giorni scorsi ha suggerito alle autorità di prestare attenzione anche al settore industriale e delle infrastrutture. Per scacciare l'incubo della fame, l'esecutivo ha lanciato l'anno scorso un piano triennale di trasferimenti in massa della popolazione. L'idea è questa: spostare circa 2,2 milioni di persone da regioni a rischio siccità in terre fertili, che pure non mancano nel Paese. Al costo di 220 milioni di dollari, in gran parte della Banca mondiale. Finora 400.000 etiopi sono già stati costretti a sloggiare le proprie abitazioni e dirigersi altrove. Come migliaia di famiglie Konso, trasferite nelle pianure dei Mursi e dei Bodi, popoli semi-nomadi della Valle dell'Omo.

«Il problema - spiega Desalegn Rahmato, presidente del Forum per gli Studi Sociali - è che sta diminuendo la quantità di terreno coltivabile a disposizione delle famiglie: questo Paese non ne ha abbastanza per garantire vita dignitosa a chi vive nelle zone rurali». Dalla campagna, intanto, si continua a fuggire. Non solo in città, ma anche all'estero.

«Ogni volta che torno ad Addis Abeba a trovare i miei parenti, vedo un numero sempre maggiore di poveri e storpi nelle strade», scuote la testa Zeleke Akulu, 38 anni. Con moglie e una figlia vive a Washington dal 2000. «Lì lavoro come tassista» e mostra con orgoglio l'apposita licenza rilasciata dallo Stato della Virginia, scadenza 2013. «Quando chiedo agli amici se la situazione in Etiopia sta migliorando, mi rispondono che ci sono ancora troppi motivi per andarsene».

Chi non può scappare oltreconfine - soprattutto in Yemen e Arabia, al di là del Mar Rosso, o rischiando la traversata del Mediterraneo - prova ad aggregarsi alla massa urbana di chi chiede elemosina o cerca lavoro. La capitale che alla fine Ottocento la regina Taitu, moglie di Menelik, volle chiamare Addis Abeba, "Nuovo Fiore", ormai è avvizzita per la l'urbanizzazione soffocante e selvaggia. Alle lussuose ambasciate disseminate lungo Bole Road si alternano senza soluzione di continuità ammassi di baracche e lamiere.

Qui giorno e notte brulica un esercito di 60.000 ragazzi di strada. Sono gli sciuscià del Terzo Millennio, lustrascarpe o facchini a giornata come Tadele Wondafrash, 12 anni che sembrano il doppio. Al tramonto, quando gli va bene, si trova in tasca pochi spiccioli di birr, che bastano per un pezzo di injera, il soffice pane di cereale diffuso in tutta l'Etiopia.

Don Dino Viviani, un salesiano valtellinese dall'andatura dinoccolata, è riuscito a strappare un drappello di loro da questa vita di stenti e violenze. Li accoglie in un piccola comunità-alloggio alle spalle della vecchia ferrovia Addis-Gibuti. «Proviamo a restituirgli dignità. Alcuni non avevano mai fatto la doccia in tutta la loro esistenza», sorride, e poi risponde in lingua amarica ai suoi ragazzi che lo chiamano. Cresciuti sui marciapiedi, ora hanno istruzione, un letto e un pasto caldo. Dopopranzo è l'ora dei laboratori: gli ex-monelli filano ordinati a intagliare cuoio e lavorare ferro, per costruirsi un futuro.

Le ipoteche sul domani, oltre alla povertà, si chiamano Aids, tubercolosi e malaria, che inchiodano l'aspettativa di vita media a 44 anni. «Siamo il Paese delle contraddizioni, perché abbiamo molte risorse e non riusciamo rilanciare uno sviluppo che sappia arginare le povertà», osserva Ruphael Yoannes, direttore dell'Addis Tribune, il primo settimanale privato etiope.

Per capirlo, dal centro della capitale basta percorrere pochi chilometri verso le montagne Entoto, a nord. Ti ritrovi in un altro mondo rispetto alle assolate distese della Rift Valley: la strada che scorre veloce verso Bahar Dahr e il Lago Tana (costruita dagli italiani in epoca coloniale, rifatta dai giapponesi in epoca globale) sembra un itinerario a metà tra le Highlands scozzesi e la Val di Non in Trentino. Gli altipiani - culla della chiesa ortodossa d'Etiopia - esplodono di verde.

Eccola l'altra grande risorsa del Paese che ha dato i natali all'ominide Lucy e alla pianta di caffè: la cultura e la storia millenarie di un Paese antichissimo. È il volto nascosto dell'Etiopia, non solo il Paese della malnutrizione. Forse il turismo non è ipotizzabile come motore di sviluppo, ma come possibile fattore di crescita: dagli obelischi di Axum fino a Gondar, la Camelot d'Africa coi suoi castelli seicenteschi. E poi "l'ottava meraviglia del mondo", le undici chiese rupestri di Lalibela, scolpite nel XII secolo "dagli angeli", narra la leggenda. Qui, in un villaggio inerpicato a 2.600 metri, ancora privo di banche e farmacia ma già meta di un significativo flusso turistico, la speranza si chiama Kefyalew Mollah, 15 anni. Occhi vispi e voglia di andare all'università nella capitale. Questa volta non è una fuga: «Qui non abbiamo dottori, farò il medico tra la gente dei miei villaggi», assicura.

 

 

L'arcivescovo: giovani costretti ad andarsene. Il Nord del mondo non vede questa povertà

 

Da Addis Abeba, Emiliano Bos

 

«Questa gente fugge dalla miseria: nonostante il senso di spiritualità intriso nel popolo etiope, i giovani sono costretti a vendere la loro dignità al miglior offerente. Vanno nei Paesi arabi, altrimenti annegano nel Mediterraneo perché l'Europa ha chiuso le sue porte».

Monsignor Berhaney Demerew Souraphiel, 56 anni, arcivescovo metropolita di Addis Abeba, parla lentamente e stringe nelle mani la croce al collo - «un dono del Patriarca del Cairo», dice. I cattolici sono meno dell'1%, ma nel delicato rapporto tra la "storica" Chiesa ortodossa d'Etiopia e la crescente presenza musulmana costituiscono un solido punto di riferimento. «Abbiamo la sensazione - prosegue il capo della comunità cattolica - che nel Nord del mondo, in Europa e negli Stati Uniti, non venga percepita la sfida della povertà. Abbiamo bussato a molte porte, siamo in possesso di tutte le informazioni necessarie a livello di base per far spiegare la nostra situazione».

Eppure... Eppure non siamo compresi. Possibile che solo con le bombe si possa richiamare attenzione?», dice provocatoriamente l'arcivescovo, che durante il regime di Menghistu Hailé Mariam venne incarcerato per alcuni mesi. «Lo vediamo che il benessere sta solo da una parte. Guardate che anche qui c'è la televisione: le giovani generazioni ormai hanno capito che dormire su una stuoia, per terra, in una capanna di fango non è l'unica prospettiva».

L'Etiopia è un Paese giovane: la metà della popolazione ha meno di 17 anni. Come uscire da quello che il metropolita di Addis Abeba definisce «il circolo vizioso della povertà»? «Innanzitutto, con politiche agricole favorevoli ai contadini. Il governo non può chiedere alle famiglie solo tasse o figli da arruolare nell'esercito. Se per comprare un quintale di fertilizzante ne servono 10 di mais, c'è qualcosa che non funziona», prosegue monsignor Souraphiel, che è anche presidente dell'Assemblea dei gerarchi della Chiesa di rito alessandrino di Etiopia ed Eritrea: «Da parte nostra stiamo promuovendo piccoli progetti che producono reddito, per dare speranza alla gente. È necessario modificare mentalità e mostrare la strada del cambiamento».

L'intellettuale più famoso: «Siamo liberi, sì ma non ci ascoltano. Un errore quel piano»

 

Da Addis Abeba, Emiliano Bos

 

Libero di parlare? «Non mi hanno ancora cacciato dal Paese». Alula Pankhrust - docente di sociologia, ricercatore, uno degli intellettuali più in vista del Paese - lo mette subito in chiaro: con questo governo «posso esprimere le mie opinioni come ho sempre fatto durante il regime del Dergue» (Menghistu), quando per 17 anni, fino al 1991, l'Etiopia è stata guidata da una dittatura militare di ispirazione marxista-leninista. Oggi il problema, spiega, è un altro: «Nessuno ascolta quello che dici».

Intellettuali e società civile stanno cercando di levare la propria voce per esprimere dissenso sul gigantesco progetto di «resettling» del governo di Addis Abeba, cioè il trasferimento di popolazione in zone rurali più fertili. «Durante gli anni del Dergue fu un disastro, con oltre mezzo milione di etiopi mobilitati a forza. Noi proponiamo di usare prudenza negli spostamenti di centinaia di migliaia di famiglie, non siamo certi che questo modello porti le soluzioni prospettate dal primo ministro», spiega Pankhrust.

L'idea di traslocare 2,2 milioni di persone entro tre-cinque anni non piace ad Unione europea e Onu. Però trova consenso in alcuni donatori internazionali, pronti a metter mano al portafogli per sostenere il programma. «La Banca mondiale ha condotto uno studio in cui dimostra che il resettling non funziona e accresce la povertà. Ma in Etiopia la stessa istituzione finanziaria appoggia questo progetto. C'è qualcosa di strano», aggiunge il sociologo, figlio del celebre storico britannico Richard Pankhrust, promotore dell'Istitute for Ethiopian Studies dell'Università di Addis Abeba.

«Le autorità non vogliono nemmeno mettere in discussione il concetto di proprietà della terra, che per ora appartiene allo Stato. E soprattutto non sono disposte ad ascoltare le istanze di benessere della società. È necessario inoltre creare un clima favorevole agli investitori: anche la diaspora, per il momento, non intende tornare».

 

 

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aggiornamento pagina: 6 ottobre 2004