ARTICOLI E PUBBLICAZIONI


Da "MISSIONI CONSOLATA" (mensile dei Missionari della Consolata) di gennaio 2003

(sito internet: www.missioniconsolataonlus.it )

 

 

I GRANDI MISSIONARI

PADRE GIOVANNI BONZANINO

MILLE E UN SOGNO

 

a cura di Benedetto Bellesi

 

Missionario di frontiera, irresistibilmente attratto dal più difficile, lontano e bisognoso, padre Giovanni Bonzanino moriva a Shashemane (Etiopia) 20 anni fa, il 30 gennaio 1983. Amò la «sua Africa» con passione contagiosa, fino a consumarsi a soli 56 anni.

«Non sono nato in Africa. Questo mi dispiace un poco. Avrei voluto essere sfornato in questa verde, dolce, ubertosa Africa, dove si viene al mondo inguantati in un’ambra vellutata e soave e la vita scorre smorzata come un venticello che sfarfalla tra ramificazioni di alberi giganteschi». Così inizia una specie di diario in cui padre Bonzanino racconta l’esperienza dei suoi primi anni in Africa.

 

SOGNANDO L’AFRICA

«Invece sono nato a Biella» continua. Era il 29 gennaio 1927. Prima ancora che venisse al mondo, sua madre lo aveva offerto alla Madonna, conservando quel segreto per 30 anni, fino a quando visitò il figlio in Kenya: padre Giovanni l’abbracciò, sollevandola da terra e, in un impeto di gioia, le disse: «Mamma, quel giorno mi hai fatto il più bel regalo». Alberta Maria era una donna che «sapeva il fatto suo, dai battibecchi con le vicine al far filare dritto i figli, dallo speculare fino all’osso per sbarcare il lunario a lavorare in fabbrica e passare tra posti di blocco in bicicletta con un carico di granoturco». Papà Vittorio non era da meno. «Tutto casa e lavoro, vecchio socialista, dovette assoggettarsi a portare il fez in testa per campare, rischiare la galera per racimolare due chili di farina al mercato nero, poiché il pane della tessera finiva troppo in fretta». Erano i tempi duri del fascismo e della seconda grande guerra. Ciò non impedì al piccolo Giovanni di coltivare sogni e avventure, come un ragazzo normalissimo. Nei tempi liberi dalla scuola faceva qualche lavoretto in fabbrica, per arrotondare il bilancio familiare. In classe si appassionava di storia e geografia, ma era allergico alla matematica. «Non fui mai uno sgobbone - confessa -. La mia specialità era il pallone e il tifo per la Juventus: primo amore che mi portai in Africa come un soldato il suo fucile». A volte, con la banda del quartiere, marinava la scuola per esplorare la campagna o alleggerire la pianta di fichi nell’orto del prevosto. «Un giorno Tavio, il vecchio sacrestano, mentre si riallacciava la cinghia dei calzoni appena usata sui piccoli furfanti, mi domandò cosa sarebbe stato di una canaglia come me da grande; risposi innocentemente: “Mi farò missionario”. Si sbellicò dalle risa. Ma quando celebrai la prima messa, mi diede una pacca sulle spalle e sorrise: “L’ho sempre detto che ti saresti fatto prete”». Entrato nel seminario di Biella, Giovannino sognava di essere torturato dagli africani e finire martire. In quinta ginnasio decise di farsi missionario della Consolata. «Coi miei 17 anni, lieto, baldanzoso e impaziente - racconta -, iniziai il liceo a Varallo. Non all’algebra e trigonometria. Avevo qualche ebbrezza poetica, ma il mio ideale era l'Africa. In noviziato, alla Certosa di Pesio, non ho avuto sussulti mistici, né impennate carismatiche. Tra i miei compagni c’era un africano: fu il migliore stimolo missionario». Durante gli studi teologici continuò a respirare aria di missione, più dalle figure di missionari incontrate nella casa madre di Torino che dalle lezioni accademiche. Arrotondò il suo curriculum con discipline utili per l’Africa: diploma magistrale, fotografia, dattilografia. Finché fu ordinato prete nel 1953, a 26 anni. L’anno seguente partì per il Kenya: «Fu il giorno più bello della mia vita».

 

L’INAFFERRABILE JOHN

Destinato alla missione di Mujwa, nel Meru, John cominciò subito a studiare la lingua locale, familiarizzare con usi e costumi della gente e smontare qualche idee preconcette, alla scuola della figura poliedrica e briosa di padre Chiardo. Appena riuscì a masticare qualche parola in kemeru, prese a scorrazzare, prima con una vecchia moto, poi con una Land Rover scassata, per visitare le comunità, portare uno all’ospedale, un’altra alla maternità, un terzo al brefotrofio. «Mai paura! Passo per uno che pialla le curve e mangia i freni» scriveva nel diario. A giugno del 1954 era professore d’inglese e storia nella scuola secondaria di Nkubu. «Come è impartita qui - scriveva -, la storia ha una piuma bianca sul cappello scozzese: testi in inglese di autori inglesi. È una storia colonialista». Ma ci pensò lui a metterci la penna nera dello struzzo africano, evidenziando le scoperte archeologiche fatte in Africa orientale, sciorinando imprese coloniali e tratta degli schiavi, «pagine che facevano impazzire gli studenti». Alla fine del 1956 fu nominato parroco di Meru, capitale dell’omonimo distretto, dove si stava costruendo la cattedrale. «Sono uscito dalla fase di amore avventuroso-romantico per l’Africa e posso dire, parafrasando san Paolo: sono cittadino africano» scriveva nel diario. E continuò a sognare e dare sfogo alla creatività vulcanica con innumerevoli iniziative di successo: pubblicazione del Twi ba Meru, mensile di 10 mila copie; compilazione, con l’aiuto di un prete africano, di innumerevoli fascicoli, libri, sussidi, catechismi in lingua locale; uso di moderni strumenti di comunicazione come radio e cinema, guadagnandosi il nome di Patere Kameme (padre radio); fondazione del Meru Sport Club e organizzazione di popolarissime competizioni sportive, corse ciclistiche e tornei di calcio, collezionando un altro titolo onorifico: Thuranira, l’organizzatore. «La nostra squadra ha vinto la coppa del distretto - scriveva nel 1960 -. I ragazzi sono in orbita; io ho un ginocchio gonfio. Naturalmente la maglia indossata dalla squadra era quella della Juve». John era uno specialista nel coinvolgere la gente in progetti di chiese, cappelle, scuole, asili o altre opere sociali e si meritò un altro gallone: Patere Lotari (padre lotteria). Quasi tutte le costruzioni da lui promosse nascondono nelle fondamenta, come «pietra» angolare, una manciata di due scellini, il prezzo del biglietto della lotteria. In una parrocchia di 5 mila cristiani e 60 mila abitanti, padre John si buttava a pesce nel lavoro missionario: catecumenati e battesimi a bizzeffe. «Vacci piano, mi dicono - scrive nel quarto anniversario dell’arrivo in Kenya -. Piano un corno. Non sono io a cercare il numero; sono loro che vengono a cercare Cristo». Come se non bastasse, estendeva la sua attività a tutta la diocesi: formazione della gioventù; supervisione di una quindicina di scuole cattoliche; estenuanti trattative per fondarne altre; animazione dell’Azione cattolica; visite ai campi di concentramento, dove erano rinchiuse migliaia di persone accusate o sospettate di appartenere al movimento mau-mau.

 

LA PRIMA AFRICA

Padre John era arrivato in Kenya quando la tensione tra guerriglia mau-mau e repressione dell’amministrazione britannica era al culmine e si trovò subito schierato dalla parte degli africani.

«Nel mercato tra Mujwa e Nkubu - scriveva il 23 agosto 1954 - hanno disteso a terra, allineati, sette cadaveri di mau-mau uccisi nella foresta. C’erano lunghe file di persone a guardare. Mi sono fermato anch’io. Ho detto una preghiera e tracciato un segno di croce sui morti. Ho sentito alle spalle una risata: “Padre, neanche i tuoi sortilegi possono più farli vivere”. Era l’ispettore di polizia, che continuò: “È comodo essere neutrali per voi missionari, che benedite tutti. Vorrei esserlo anch’io; invece mi tocca fare questo maledetto lavoro e ammazzare questi bastardi”. “Non sono neutrale” gli ho risposto. Mi ha guardato con faccia da carciofo, come un macellaio che affonda la mannaia per staccare una bistecca; ma non ha più fiatato. Me ne sono andato a fare la mia lezione di storia». Nel suo diario, pubblicato una decina d’anni dopo, insieme ad altri articoli, col titolo di Le due Afriche, padre John non fu solo testimone di nove anni di convulsioni, ma anche protagonista del passaggio dall’Africa coloniale a quella indipendente. Dall’intreccio socio-politico dei suoi scritti emergono pure problemi, riflessioni e intuizioni squisitamente missionarie: inculturazione, ecumenismo, chiesa locale, rispetto delle culture, problemi tribali, divergenze con altri evangelizzatori, impegno scolastico e religioso per costruire la nuova Africa. Le sue riflessioni possono apparire un po’ daltoniche: il «nero» è bello; il «bianco» da cancellare. John guardava l’africano con occhi di missionario ciecamente innamorato, sorvolando sulle pecche e dipingendolo, o meglio «sognandolo», come «dovrebbe essere». Ma non senza apprensione. «Non ho paura di fame o lebbra, leopardo o serpente, freccia o fucilata - scriveva alla fine del ’57 -. Forse ho paura di quello che potrà accadere al Kenya».
 

LA SECONDA AFRICA

«Mentre il paese marcia verso l’indipendenza, anche la chiesa deve avere una certa autonomia» scriveva alla fine del 1960. John propose al vescovo di nominare parroco della cattedrale un prete africano. L’idea fu approvata, ma passarono quasi due anni prima che fosse messa in atto. Nominato padre Salesio, John scese al rango di viceparroco e accelerò il ritmo delle attività. «Il mio lavoro è un mosaico - scriveva nel 1963 -. Arrivo alla sera che annaspo. Stampa, Azione cattolica, cine, conferenze e raduni in continuità. Ogni missione vuole una settimana, con ritiri e proiezioni alla sera. Sono piuttosto stanco di fare il giradischi». Eppure trovava tempo per partecipare a comizi e adunate, incontrare leaders politici e altri «pezzi grossi». Le pagine del Twi ba Meru sprizzavano politica, facendo arricciare il naso ai missionari stagionati. Ma lui imperterrito, con idee chiare e benedizione del vescovo. «Ho preparato gli schemi per gli incontri del prossimo anno sul tema: libertà e cristianesimo - scriveva a una settimana dall’indipendenza -. Si tratta di far scendere tutti i cristiani nell’arena e aiutarli a non essere spettatori: il lavoro è il padre della libertà; l’ozio è il padre del colonialismo. Passerà la febbre dell’indipendenza e occorrerà rimboccarsi le maniche, soprattutto i cristiani. È un lavoro eccitante progettare l’Africa nuova». Quei giorni John doveva avere una febbre da cavallo. «Sale la pressione dell’entusiasmo - scriveva -. Ho una serie di pellicole sulla libertà di altri stati africani e tutte le sere le proietto in qualche parte del Meru. Massa di gente anche in cattedrale: nella predica padre Salesio ha detto che i presenti sono stati battezzati da me e che, con l’indipendenza, divento più africano di prima». Nella notte dell’11 dicembre 1963 toccò a padre John introdurre il Meru all’indipendenza, intrattenendo la folla con film, musica e discorsi, inno nazionale a mezzanotte e trasmissione radio della cerimonia di Nairobi. Il giorno seguente fu un’apoteosi, come racconta nell’ultima pagina del diario (vedi riquadro). Alla fine del 1963 padre John fu nominato parroco di Nkabune e cominciò a costruire la nuova Africa: pozzi, chiesa, orfanotrofio, strutture per le opere parrocchiali e sociali; soprattutto formazione di comunità responsabili del proprio futuro civile e religioso.

 

DESERTO CHE FIORISCE

Metà della diocesi di Meru, grande come mezza Italia, non aveva mai visto la barba di un missionario. Per sfondare occorreva un uomo di fegato, fantasia e testa dura. John lesse nella mente del vescovo e si offrì volontario: fu subito nominato vicario episcopale della North Eastern Province (Nep), così si chiama la regione. In passato il governo l’aveva chiusa ai missionari, per non scontentare i musulmani; poi gli schifta (ribelli somali) vi seminarono terrore e morte (1963-67), producendo 4 mila orfani. Siccità, fame e colera stavano mettendo a rischio la sopravvivenza di quasi 300 mila abitanti. Nel 1968 padre John raggiunse Garissa e, con fratel Mario Petrino, distribuì aiuti umanitari e trasformò una caserma diroccata in Boys’ Town (città dei ragazzi) per accogliere gli orfani del luogo. Tre anni dopo passò a Wajir, 400 km più a nord, nel cuore del deserto, per dare una mano a padre Baldazzi: sfamati vecchi e bambini, fondò la Girls’ Town per un centinaio di bambine orfane. Nel 1972 era a Mandera, altri 400 km più a nord, ai confini con Somalia ed Etiopia. Anche qui fondò una Boys’ Town, affidata a Manlio e Lorenza, due volontari italiani, e sostenuta dall’adozione a distanza di un gruppo di 500 famiglie italiane. Spendere tante forze in un ambiente totalmente musulmano, quando altrove si mietevano conversioni a tutto spiano, per qualcuno era uno spreco. Ma John ribatteva: «In uno scenario che è un’orgia di sole e sabbia, la gente ha soprattutto fame e sete. Corre voce che il papa abbia presentato al nostro vescovo l’urgenza della presenza cristiana in questa zona, anche soltanto per offrire un bicchiere d’acqua all’assetato». Solo Dio sa quanti ne furono distribuiti: dal fiume Tana, una pompa forniva alla missione un milione di litri d’acqua al giorno e la gente attingeva liberamente. I giornali parlavano di «miracolo a Garissa». La missione contava 24 edifici, chiesa, distributore di benzina e piscina; accoglieva 225 orfani; impiegava 200 operai locali; ogni sabato sfamava 300 fra vecchi e bambini; 30 ettari di terra producevano 12 tonnellate di meloni al mese per il mercato di Nairobi; poi mais, melanzane, fagioli, cipolle, peperoni, angurie, pomodori, arachidi e 5 mila piante di banane, papaia, uva, datteri. Identico prodigio, ma con enormi sacrifici, si ripeté a Mandera, con l’acqua stagionale del fiume Dawa: città dei ragazzi, scuola secondaria, cooperativa agricola, artigianato, sviluppo dell’habitat e commercio iniettarono nella città di nomadi la voglia di vivere più dignitosamente. Questo fu il miracolo più vero nel deserto: schiodare la gente dall’atavica apatia e rassegnazione alla sopravvivenza: gli operai impiegati nelle costruzioni impararono a farsi case più decenti; i braccianti arruolati nei lavori agricoli si misero a produrre in proprio; i pastori, abituati al numero di bestie, cominciarono a puntare sulla qualità. Perfino il governo avviò progetti agricoli e incoraggiò la gente a fare altrettanto. Più difficile era fare attecchire il seme del vangelo. Padre John non esitò a studiare il Corano e insegnarlo nella scuola, come ordinava la legge del Kenya per quell’ambiente; ma non senza accostare gli insegnamenti morali di Maometto a quelli di Gesù. E ci riusciva troppo bene; tanto che gli fu ingiunto di non profanare, lui infedele, il messaggio del profeta. John continuò a seminare la testimonianza dell’amore verso i più bisognosi; oggi se ne vedono i frutti: la Nep costituisce la diocesi di Garissa, con 10 missioni e una trentina di succursali, dove lavorano i cappuccini di Malta e vari missionari laici.

 

VANGELO NELLA RIVOLUZIONE

Nel 1974, a pochi mesi dal colpo di stato di Menghistu, John fu destinato all’Etiopia, dove una decina di confratelli, da pochi anni, lavoravano nel sud del vicariato di Harar, provincia degli Arussi. Fu subito chiamato dal vescovo a salvare la scuola secondaria di Dire Dawa, intossicata dai fumi rivoluzionari. Ascoltati studenti e genitori, con pazienza e fermezza ristabilì subito ordine e disciplina; per tre anni continuò a dirigere la scuola con grande discrezione e coraggio, specie durante la guerra somala. Non essendo il tipo da restare incollato a una poltrona, si occupò di una cooperativa agricola fuori della città; aprì una scuola in un quartiere povero; fondò un pensionato per i ciechi e insegnò loro un mestiere. Nel 1978 John fu eletto superiore del gruppo di confratelli. Quando la provincia degli Arussi fu staccata da Harar per formare la prefettura apostolica di Meki (1980), ne diventò amministratore apostolico, in attesa della nomina del prefetto. Sarebbe stato l’uomo ideale per tale carica, ma insistette perché vi fosse posto un etiope, accontentandosi di fare il vicario generale. Al tempo stesso, John fu eletto presidente della Conferenza dei religiosi del sud Etiopia. Calatosi con tutte le forze in tali responsabilità e nella realtà socio-politica del paese, padre John portò la rivoluzione nel modo di fare missione, per rispondere alle sfide antireligiose del regime marxista. Rivoluzione e missione, diceva, sono legati da un filo di speranza: entrambe vogliono sviluppo, giustizia e liberare tutti dall’oppressione. «Ma il punto debole della rivoluzione - continuava - è che non s’interessa di Dio. Per noi missionari, il nocciolo della questione rimane questo: dimostrare che non può esserci vera giustizia e sviluppo senza Dio. La nostra vocazione inequivocabile nella rivoluzione è operare in modo che uomini e donne della nuova Etiopia, con tutto il progresso e sviluppo che meritano, non siano tagliati fuori dal loro Creatore e Redentore». «La rivoluzione - spiegava - trascura le lacune di miseria: non può rallentare la marcia del progresso per stare al ritmo degli storpi. Il vangelo, invece, è buona notizia per tutti; l’evangelizzazione porterà frutti, solo se avremo con noi i ciechi e gli storpi». Insieme agli altri missionari, padre John si gettò a capo fitto nelle opere sociali, consolidando quelle già esistenti e creandone di nuove appena ne intuiva la necessità. L’ospedale rurale di Gambo, rimasto a lungo senza medici, diventò il centro di controllo e cura della lebbra e, con 267 dispensari sparsi nella provincia, assisteva oltre 4 mila colpiti da tale infermità. Accanto all’ospedale costruì un villaggio di 25 casette per dare dignità a quelli già guariti. Il centro di riabilitazione per handicappati a Gighessa fu potenziato con nuove strutture e attrezzature. Una «casa-famiglia» per handicappati e orfani fu costruita ad Asella; a Shashamane nacque la scuola per bambini e bambine non vedenti. In ogni missione fu costruito il dispensario; venne organizzata la distribuzione di tonnellate di viveri ai poveri, specie nei periodi di emergenza; si moltiplicarono le scuole. In un paese col 90% di analfabeti, l’istruzione era una priorità e un’occasione provvidenziale per l’evangelizzazione. John viaggiava da una missione all’altra per incoraggiare i confratelli, sostenere e lanciare nuove iniziative; ma senza mai perdere di vista l’evangelizzazione diretta: visita alle scuole dei villaggi, messa domenicale nelle cappelle, formazione della gioventù e aspiranti al sacerdozio, animazione delle piccole comunità cristiane. Le vacanze in patria si trasformavano in estenuanti scorribande da un capo all’altro della penisola, per sconvolgere coscienze, snidare egoismi, costruire solidarietà, coinvolgere la gente nella sua avventura missionaria. Talvolta si sobbarcava, fino a 10-15 incontri al giorno in scuole, circoli giovanili, chiese, convegni. Nascevano gruppi di appoggio in Italia e Nord America; professionisti di ogni genere (medici, maestri, agronomi, assistenti sociali...) lo seguirono in Africa.

 

COMPLEANNO IN PARADISO

Durante le ultime vacanze in Italia il dottore gli aveva detto di darsi una calmata, se voleva arrivare a 70 anni. «Se me ne restassero solo due, cosa importa? Ciò che conta è come e cosa si vive» rispose sorridendo. Era un presentimento? Due anni dopo, la sera del 28 gennaio 1983, John tornò a Shashemane dopo 10 giorni di incontri tenuti ad Addis Abeba: confessò che quella fatica «lo aveva ammazzato». Il giorno seguente ricorreva il suo compleanno. Per fargli una sorpresa, suor Flaminia stava preparando una torta, quando il padre la chiamò. Lo trovò a letto con brividi e febbre alta; gli somministrò medicine antimalariche, ma la situazione si aggravò. Accorsero i medici della zona; diagnosticarono un blocco renale e tentarono di salvarlo con flebo, antibiotici, diuretici, cortisone. Inutilmente. Per padre John i sogni si spensero la sera del 30 gennaio, a 56 anni. Una vita stroncata precocemente, ma vissuta in pienezza fino all’ultimo respiro, come si legge nell’ultima lettera alla madre: «Oggi faccio 56 anni. Certo che sono stati intensamente vissuti. Non ho avuto tempo di annoiarmi neppure per un’ora».

 

JOHN SCRITTORE

Fin dal liceo Giovanni Bonzanino aveva «una voracità innata di lettura; non era mai sazio di libri. Lettura non superficiale, ma riflessiva: fissava idee, espressioni e parole che interiorizzava » testimonia il suo professore d’italiano. Passione che lo accompagnò tutta la vita. Leggeva articoli e saggi di storia, politica, teologia, tenendosi aggiornato su tutto ciò che capitava nel mondo e nella chiesa, specie di quanto avveniva in Africa.

Nella frenetica attività che caratterizzò la sua vita, trovò il tempo per scrivere. E scrisse moltissimo: lettere, poesie, articoli, saluti appelli, libri. «È il mio relax» soleva dire, anche se rubava il tempo al sonno necessario. Il suo stile snello, agile, frizzante, volentieri anche sferzante, faceva sgranare gli occhi al lettore e lo coinvolgeva nella sequenza di miseria e fame del terzo mondo. Ecco alcuni titoli dei libri più famosi: Cittadini d’Africa (1974), ritratti di missionari e missionarie. Un uomo per l’Africa (1977), presentazione della figura del beato Allamano. Missionari nella rivoluzione (1978), note di pastorale missionaria per i paesi africani a regime socialista. Queste mie verdi colline (1979), profilo di padre Luigi Eandi. Africa casa mia (1979), quadri di esperienza missionaria. Il primo figlio (1980) e Gli insabbiati (1982), romanzi a sfondo missionario. Quattro volumi pubblicati postumi: Due Afriche e un po’ d’Italia, prima e dopo l’indipendenza. Momenti d’Africa, riflessioni sull’attività missionaria in Africa. Ritorno a casa, romanzo con protagonista un lebbroso guarito. Africa mia, raccolta di poesie.

 

 

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aggiornamento pagina: 17 ottobre 2003